Da tempo Andrea Bertotti realizza il suo lavoro pittorico utilizzando come supporto le pagine di un quotidiano. A notte, quando il cortissimo ciclo di vita del giornale giunge al termine, Bertotti ne ricicla i fogli aperti e li ricopre di colori e di segni.
Il giornale è forse il simbolo più esplicito dell’eccesso di informazione che pervade lo spazio comunicativo della nostra società ipercomplessa. Pochi oggetti di uso corrente e consumo rapido richiedono il concorso di tale quantità di persone e di risorse per essere prodotti. Eppure la somma di conoscenze e di tempo personale che si concentrano in un giornale contrastano con la caducità estrema dei suoi contenuti.
Come ogni metafora appropriata del nostro tempo, il giornale contraddice nei fatti quei propositi che dichiara perseguire. Là dove l’intenzione è quella di aumentare la leggibilità del mondo, il risultato più tangibile è la creazione di rumore e confusione. L’accumulazione di tanto materiale di lettura produce, come effetto collaterale, l’irrilevanza dei messaggi. Le varie strategie per fare notizia in modo da captare l’attenzione favoriscono, al contrario, un modello di lettura distratta e dispersiva. Ogni sforzo per creare ordine attraverso il suo discorso diventa una nuova e più potente fonte di disordine. Un giornale, insomma, è la dimostrazione quotidiana della vigenza inflessibile del principio di entropia.
Direi che Andrea Bertotti utilizza il giornale con ironia consapevole, senza disdegnare neppure i vantaggi di carattere pratico che il supporto gli offre: costo zero, formato costante, ampie possibilità di errore, cioè di esperimento. Il giornale è, per Bertotti, uno spazio di libertà, la metafora del lusso spirituale che si è concesso quando ha lasciato la sua attività in ambito pubblicitario per esercitare il proprio talento creativo senza imposizioni esterne. In un certo senso, assume una maggiore povertà di mezzi per attingere ad una maggiore ricchezza di esperienza.
E nel vedere i risultati del suo lavoro, due cose mi saltano alla vista: la prima è una capacità poco frequente di integrare le capacità simbolica, gestuale e visiva in una sintesi efficace; lo spunto concettuale si combina col gesto grafico e si traduce in materia pittorica con una facilità, e spesso direi felicità, per me ammirevoli. Mano, occhio e mente convergono nella creazione di un impatto visivo semplice, ma ricco di spessore estetico. Gioca qui, certamente, la sua conoscenza del linguaggio diretto ed essenziale dei messaggi visivi nel terreno della pubblicità, nobilitati in questo caso dall’assenza di finalità commerciale.
Il secondo elemento di riflessione è relativo al modo di lavorare di Bertotti: perchè anche il suo appuntamento con la pittura è quotidiano, e presuppone un poderoso esercizio di “presenza” dell’autore, davanti all’opera che l’attende in forma di fogli di giornale. È dunque il quotidiano, in questo duplice senso del termine, la palestra creativa di Bertotti, che esige concentrazione della mente e scioltezza del gesto; più esattamente, significa per lui confrontarsi ogni giorno con la dimensione più materiale e concreta –e difficile– del fare artistico, vale a dire l’atto creativo, il corpo a corpo con il foglio bianco (o grigio), questa ginnastica a cui l’autore sottopone le proprie facoltà espressive, con una sorta di disciplina ferrea e ironica al tempo stesso.
Sta qui, a mio modo di vedere, la chiave della prolificità di Bertotti e, se vogliamo, dell’originalità spigliata e grintosa dei suoi lavori: ancora riesce a non confondere il dipingere coi dipinti. L’azione continua ad essere il momento centrale della sua produzione artistica, attraverso cui l’autore costruisce attorno a sè un’isola di senso che riduce il disordine del mondo (come minimo per lui); l’opera, come risultato, è riflesso, ma ovviamente non sostituto, di quest’atto creativo, che in quanto tale è unico, fuori commercio, non riproducibile, e dunque inestimabile.
Siccome, però, l’arte occidentale è feticista, innamorata dell’opera, che viene idolatrata al di là di qualunque ragionevolezza, ecco che un foglio di giornale aiuta a sdrammatizzare questo assurdo; rende più difficile la mitificazione dell’oggetto d’arte, permette perfino di venderlo a un prezzo ragionevole, e –per quanto riguarda l’autore– trasforma l’angoscia davanti al “papier vide” in un atto di sperimentazione relativamente libero dalla paura dell’errore.
Attraverso il quotidiano, dunque, Andrea Bertotti si avvicina alla dimensione magica del momento presente, al “qui-ed-ora” a cui inspiegabilmente ci dedichiamo a sfuggire con agitazione crescente, quando invece è proprio questo –e non altri– il luogo dove la vita gioca con la bellezza e col senso. Ed è qui, credo, dove sta di casa l’arte, almeno quella di Bertotti.
Stefano Puddu Crespellani